lunedì 15 marzo 2021

sabato 13 marzo 2021

 

ERAVAMO COMPAGNI DI BANCO


Dalla Scuola Elementare di Santa Prassede al Liceo “Jacopone” di Todi


di Gianluca Prosperi


Aula Magna del Liceo Jacopone a Todi

Addio dunque al “compagno di banco”, separato in aula a causa dell’ epidemia Covid che ha imposto a scuola, tra le altre procedure di prevenzione, anche i banchi monoposto a distanza regolamentare, in sostituzione di quelli in uso biposto. Ne ha lamentato la scomparsa (in via provvisoria o definitiva, si vedrà) Goffredo Buccini, tracciandone l’identikit con esemplificazione di noti personaggi, da Fellini a Wojtila: “ ‘Lui’, o ‘lei’, ineludibile quanto un topos narrativo o un ricordo profondo, ha un’identità diversa per ciascuno di noi.

È il compagno (o la compagna) di banco. Quello (o quella) della ridarella irrefrenabile dell’ultima ora; della battaglia navale sussurrata durante la lezione di applicazioni tecniche; della dritta salvavita prima di consegnare il compito di matematica; confessore di un amore impossibile, sostituto emotivo di una famiglia anaffettiva. Non è soltanto un amico o un’amica: è un fratello o una sorella pro tempore, per un tempo che a volte può dilatarsi al resto dell’esistenza e, anche quando così non è, rimane in noi immutabile, nei lineamenti, nei tic, in quella capacità sbalorditiva di colorare, meglio di chiunque altro in classe, il diario di Linus 1973; nello strafalcione sulle ‘ rondinelle’ che ‘s’alzan nel cielo / e perdònsi laggiù’, liberandoci così, con rivoluzionaria insipienza metrica, da una brutta poesia proprio sul filo della campanella” ("Se scompare il compagno di banco", Il Corriere della Sera, 30 agosto 2020).

Eravamo compagni di banco è il titolo del bel libro (Sugarco, 1987) di Nicola D’Amico che vi intraprende un viaggio attraverso i più prestigiosi licei italiani dove si sono formati allievi divenuti protagonisti della vita nazionale, ma ancor prima certifica più che una vicinanza, quasi una sorta di condominio, nella condivisione della comune esperienza scolastica che s’imprime nelle singole biografie e annulla qualsiasi distanza temporale tra i componenti di una medesima classe, per cui anche rimanendo lontani a lungo, quando ci si rivede è come se fosse passato un solo giorno dall’ultimo incontro, allo stesso modo peraltro del rapporto di fratellanza che perdura nella vita tra commilitoni.

                       Gianluca Prosperi (a sinistra), presenta il libro di un autore,
                                           il musicista Giuseppe Vessicchio

È vero che una maggiore mobilità in aula ha reso le disposizioni delle “coppie” nei banchi “meno stabili”, intercambiabili e a composizione mista, con ragazzi e ragazze insieme, rispetto al passato, quando invece una più rigida disciplina divideva le file dei maschi da quelle delle femmine, anche se alcuni insegnanti all’inizio dell’anno ancora compilano in apertura di registro la mappa della classe (soprattutto per chi ne ha più di una) per una più immediata identificazione e memorizzazione degli alunni.

Per esserci stati seduti, quelli della mia generazione ricordano i più austeri banchi in legno verniciati di nero, in un blocco unico con lo schienale, il sedile e i calamai incorporati, quando ancora si usavano i pennini (di forma usuale o più raffinata e le prime penne biro erano interdette dai maestri), in dotazione fino agli anni Sessanta per essere poi soppiantati dai più maneggevoli tavolinetti con il ripiano in formica dai colori chiari, corredati di seggioline mobili. Uno di quegli antichi banchi alla scuola elementare di Santa Prassede, il primo della fila centrale davanti alla cattedra, fu condiviso con il cosiddetto “capoclasse” (con i gradi in rosso sul grembiule nero, differenziati dalla V bianca del vice che fregiava il mio grembiule) a cui era delegato, in assenza temporanea dell’insegnante, il compito di scrivere alla lavagna i nomi dei “buoni” e dei “cattivi” e naturalmente per il ruolo che ricopriva, durante la “ricreazione”, nel gioco di “guardie e ladri” stava dalla parte dei tutori della legge. Distinguendosi per bravura (come il “Pierino” donmilaniano), era invidiato, perché, figlio di un maestro, aveva in casa l’ambita enciclopedia “Il Tesoro”, possedeva inoltre il registratore (marca “Geloso”) e uno dei primi proiettori che solo in pochi tra i compagni erano ammessi a vedere in funzione con la proiezione di filmini a carattere didattico fornite dal padre.

Farà parte poi, pur frequentando classi parallele nel prosieguo degli studi, della ristretta cerchia delle amicizie, consolidate nelle abituali uscite del passeggio cittadino e corroborate dalle conversazioni (e reciproche confidenze) adolescenziali, oltre che dalla iniziazione al fumo delle sigarette scelte per essere più chic piuttosto in base alla attrattività grafica dei pacchetti (da qualcuno pure collezionati) e dal sottoscritto presto dismesse. Con un altro compagno delle elementari, ritrovato nella medesima classe del corso liceale e anch’egli entrato nel circoscritto novero degli amici, ci si riuniva di frequente per fare i compiti (con l’immancabile merenda) nella casa di via Cesia, vicino alla mia abitazione, e nelle pause (spesso più lunghe del tempo di studio) si parlava d’altro (per esempio di gare automobilistiche di cui era appassionato o di politica con gli ardori e gli ideali giovanili negli anni dei Kennedy e di Martin Luther King), si giocava a carte (per il poker dovendo essere almeno in quattro, si approfittava del ripasso prima dei compiti in classe e delle interrogazioni generali), ma principalmente si programmavano strategie di corteggiamento delle ragazze.

Al ginnasio, il compagno di banco era per tutti noi “il dottore”, per la seriosità del suo abbigliamento, sempre in doppiopetto blu o grigio con abbinamento di camicie e cravatte. Nonostante l'aspetto più consono ad un professionista che a uno studente quindicenne, durante la lezione e a riparo dagli sguardi censori dei docenti, disvelava uno spirito giocoso, in particolare nella composizione di versi satirici su compagni e insegnanti, nella parodistica imitazione degli stessi e addirittura (con la complicità del vicino) mimando situazioni da indovinare o riproponendo scene dei teleromanzi.


Prefigurava invece già una vocazione da intellettuale, il “partner” di banco negli ultimi due anni liceali che di lì a poco avrebbe imboccato la via dell’impegno nel movimento sessantottesco. Ne assumeva anche l’adeguato contegno nel seguire le lezioni e negli interventi in classe, con aria assorta e compunta, affiancando ai libri di testo esibite monografie di approfondimento e le opere degli autori (da lui acquistai a metà prezzo la Critica della ragion pura nella collana “Universale Laterza”) e portando a scuola riviste come “La Fiera Letteraria” e “L’Espresso”. In un numero di quel settimanale (allora in formato “lenzuolo”) visto a casa sua, mentre ci si preparava agli esami di maturità (con inizio allora dal primo luglio), veniva registrata una svolta nei rapporti redazionali per la contrapposizione tra il direttore Eugenio Scalfari e il fondatore Arrigo Benedetti, (che in seguito a quella polemica uscì dal giornale per ridare poi vita a “Il Mondo”) sulla “guerra dei sei giorni” tra arabi e israeliani.

Decenni dopo, quando ormai ci si era persi di vista, rispondendo al telefono, mi sentii domandare se quel nome e cognome pronunciato dall’interlocutore mi dicesse nulla e di rimando immediatamente risposi che “eravamo compagni di banco” in seconda e terza liceo. Ci siamo così ritrovati qualche tempo dopo, con una certa emozione, nell’Aula Magna del nostro Liceo (dove peraltro erano state collocate le mie classi ginnasiali) a parlare di un libro, di cui lui era autore ed io presentatore.

Gianluca Prosperi